A differenza di tanti giornali affetti da cronica distrazione verso tutto ciò che incrocia con il lavoro, Il Sole 24Ore non perde di vista neppure per un momento tutto ciò che si muove in quel perimetro, avendo esso perfetta nozione di quanto gli esiti della politica e la tutela degli interessi in campo si giochino sul terreno dei rapporti sociali. Non è dunque un caso se il prestigioso giornale confindustriale sia il solo, insieme a
Ieri, per esempio, Il Sole pubblica un appunto che Marco Biagi, nel lontano 2001, aveva affidato all'attenzione dell'allora ministro del lavoro Roberto Maroni, ricordando, nell' incipit , che il giuslavorista bolognese cadde, un anno dopo, sotto il piombo delle Brigate rosse. Atto, sia chiaro, moralmente e politicamente ripugnante, ma che non trasforma la vittima, secondo un italico, ipocrita vezzo, in icona da adorare e le sue opinioni in verità inossidabili. Ma cosa si trova, in quella nota, che già non fosse conosciuto? Assolutamente nulla. Quella de Il Sole è dunque una riesumazione puramente propagandistica, prodotta per spalmare una patina di autorevolezza sul provvedimento che ora Napolitano è chiamato a valutare nel suo profilo di costituzionalità.
Cosa sosteneva Biagi in quel testo vergato circa 10 anni fa per l'opportuna meditazione di Roberto Maroni ed ora da questi reso pubblico?
Riassumiamo, con il dovuto scrupolo. Biagi afferma che prioritario «nell'agenda della modernizzazione» è la «flessibilità in uscita», vale a dire l'opportunità per l'azienda di risolvere il rapporto di lavoro, anche quando il licenziamento sia illegittimo, essendo il lavoro «iperprotetto» (?) un viatico per il lavoro precario e "nero" e, soprattutto, rappresentando esso un gap , uno «svantaggio competitivo che sopportiamo rispetto alle imprese di altri paesi europei».
L'obbligo di reintegrazione eventualmente disposto dal giudice in ragione dell'articolo 18 dovrebbe dunque, secondo Biagi, essere tolto di mezzo, per lasciare il posto ad un'«indennità risarcitoria che ristori il lavoratore dal danno subito».
La sanzione economica - e soltanto economica - verrebbe poi affidata ad un arbitro, abilitato unicamente a calibrarne l'entità, «tenendo in considerazione tutte le circostanze del caso».
Sicché «l'obbligo della reintegrazione ex articolo 18 dello Statuto dei lavoratori rimarrebbe solo in caso di licenziamento discriminatorio».
Peccato che, come anche Biagi ben sapeva, il carattere discriminatorio di un licenziamento (per razza, religione, idee politiche, ecc.), che neppure il più sprovveduto dei datori di lavoro adotterebbe mai come formale motivazione per la cacciata di un proprio dipendente, deve essere dimostrato in giudizio dal ricorrente, dal lavoratore: impresa improba e fatalmente destinata all'insuccesso.
Ciò che invece appare del tutto estraneo all'orizzonte culturale di Biagi è che la privazione del lavoro inflitta ingiustamente non rappresenta soltanto una vulnerazione patrimoniale, bensì un'amputazione grave della dignità e della personalità della persona.
La nota di Biagi poi prosegue, sostenendo che alla flessibilità «in uscita», delicato eufemismo con cui viene rinominato il licenziamento, sarebbe utile unire, «ad abundantiam», anche quella «in entrata», allungando il periodo di prova «almeno fino ad un anno», in modo tale che l'imprenditore, prima di stabilizzare un rapporto di lavoro, possa "tastare in bocca" il lavoratore ed evitare di tirarsi qualche serpe in seno.
Ora, bisogna essere grati a Il Sole 24Ore per avere reso un servizio alla messa a fuoco di un tema così cruciale.
E di avere (involontariamente?) mostrato come lungo un decennio le mirabili intuizioni del professor Biagi abbiano fatto strada, siano state riprese dall'archetipo originario e "perfezionate", sino ad entrare a pieno titolo nella legislazione vigente.
Già molto, come si sa, è stato fatto per aggirare
Il negozio attraverso il quale il lavoratore cede la sua forza lavoro, torna ad essere, come un secolo fa, il risultato di un patto privato in cui egli si presenta "libero" sul mercato. Libero come il cane alla catena. Tutto ciò è pura barbarie. Magari "moderna", ma pur sempre barbarie. E segna una regressione democratica che svelle l'architrave stesso su cui poggia la Costituzione. Se spetta al Presidente della Repubblica e alla Consulta non lasciare libero campo a questo scempio, è compito delle forze democratiche, dei sindacati, delle espressioni più vitali della società civile, degli intellettuali trasformare in permanente mobilitazione sociale, in battaglia politica e culturale la difesa attiva dei diritti del lavoro.