«Quello che è successo in Afghanistan, Iraq e Libia evidentemente non ha insegnato nulla», spiega il coordinatore nazionale del movimento don Renato Sacco, «l'Occidente prima vende le armi a questi regimi e poi li attacca» Antonio Sanfrancesco
Don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi, si dice «triste ed amareggiato» per la piega che stanno prendendo gli eventi in Siria.
L’America dice che non si può più restare inermi di fronte ai crimini commessi dal regime di Assad.
«La
guerra, ogni guerra è un’avventura senza ritorno. Anzi, come ha detto
papa Francesco, è il suicidio dell’umanità. Basta vedere a quello che è
successo in Afghanistan, in Iraq, in Libia: il rovesciamento del capo
del regime non ha portato affatto la pace. È una storia che si ripete
sempre, con amarezza: noi abbiamo sempre cullato i dittatori, li abbiamo
ritenuti nostri amici, li abbiamo armati e poi abbiamo detto che
bisognava fargli la guerra. È successo con Saddam e poi con Gheddafi. La
comunità internazionale ha fatto di tutto con la sua indifferenza a far
precipitare della situazione, l’Italia stessa ha venduto le armi alla
Libia e poi si è detto che bisognava bombardare. Questa non è pace. La
guerra non è mai la strada da percorrere, come afferma la Dottrina
sociale della Chiesa e come ha ribadito qualche giorno fa mons. Tomasi,
osservatore permanente della Santa Sede presso l’Ufficio Onu di
Ginevra.
Una chiave di questo precipitare degli eventi potrebbe
essere quella delle pressioni esercitate da parte delle lobby delle
armi. Qualcuno parla già di accordi economici e militari tra Usa e
Arabia Saudita».
Ma le vittime degli attacchi di Assad non vanno tutelate?
«Chi
oggi si scandalizza di fronte alle vittime siriane, se lo fa per
arrivare alla guerra lo fa per interessi. Poi le vittime vengono
dimenticate e non se ne parla più. In Iraq nel mese di luglio ci sono
stati mille morti, siamo arrivati ai livelli di violenza del 2006 e
nessuno parla più. Quando si utilizzano le vittime per giustificare una
guerra non lo si fa per amore delle vittime ma per amore dei propri
affari e dei propri interessi. Essere in Afghanistan ci dà la visibilità
di sedere al tavolo degli accordi internazionali. Poi succede che
alcuni piccoli progetti di cooperazione in alcuni villaggi afghani non
vengono finanziati dalla comunità internazionale perché sono troppo
piccoli e non fanno notizia. Invece sarebbero i passi per la pace».
Come se ne esce dal pasticcio siriano?
«La
soluzione in tasca non ce l’ha nessuno, bisogna cercarla. L’unica cosa
di cui sono certo è che la guerra non è la soluzione. È come avere un
figlio che dà problemi, l’unica cosa che so è che non lo devo uccidere
anche se mi fa disperare. L’intervento armato a sostegno dell’uno o
dell’altro schieramento porterebbe alla catastrofe totale, renderebbe
esplosiva tutta l’area mediorientale già instabile con conseguenze
devastanti per tutti, a cominciare dall’Europa.. Io credo che la
comunità internazionale in passato non abbia fatto quasi nulla per
fermarsi e vedere cosa stava succedendo in Siria. La soluzione passa
dall’abbandono dell’intervento militare. Non forniamo più armi, isoliamo
le lobby degli armamenti. È una strada in salita, quella della pace,
faticosa, è un cammino, come diceva don Tonino Bello. La Siria, come la
Libia, fa notizia adesso, fra un mese o due non se ne parlerà più. A
nessuno interessa da dove arriva il gas, chi glielo fornisce. Come è
successo a Sarajevo, per anni abbiamo fatto finta di non vedere, abbiamo
venduto le armi a chi bombardava Sarajevo, io ho le foto e le
testimonianze, poi abbiamo deciso di intervenire e fare la guerra. Così
abbiamo guadagnato due volte vendendo le armi agli uni e agli altri.
Temo che con la Siria finisca proprio così».
28 agosto 2013