mercoledì 29 aprile 2015

La libertà di critica non si condanna!

Nel 2007 una insegnante di Palermo viene denunciata per abuso di mezzi di correzione per avere fatto scrivere 100 volte sul quaderno “sono un deficiente” a un suo alunno, una punizione inflittagli perché aveva impedito a un compagno di classe di entrare nel bagno dei maschi, definendolo “gay” e “femminuccia”.

#iostoconvincenzo

Nel processo di primo grado l’insegnante è assolta. Il pubblico ministero Ambrogio Cartosio presenta un atto di Appello nel quale scrive che i metodi educativi dell’insegnate palermitana sono da paragonare a quelli della “rivoluzione culturale cinese del 1966” e che “è nozione di comune esperienza che i giovani, dai più piccoli ai più grandi, e in tutte le aree geografiche d’Italia, sono soliti apostrofarsi reciprocamente (e, spesso, semplicemente per scherzo) con espressioni omofobiche, o che hanno per oggetto i presunti facili costumi delle rispettive madri. Si tratta di un’abitudine non commendevole, quanto largamente diffusa e si può anche dire largamente tollerata dalla società”.

Appresa la notizia dalla stampa, l’Associazione Omosessuale di Palermo Articolo Tre dirama un comunicato in cui è scritto che con quelle motivazioni il pm Cartosio dimostra di essere la punta avanzata dell’involuzione culturale italiana del 2007. Il comunicato esprime profonda indignazione non per il legittimo diritto al ricorso in appello, ma per la grettezza machista, omofoba e misogina che costituisce l’impianto ideologico su cui tale ricorso si fonda. Perché considerare certi insulti semplice scherzo tra ragazzini di scuola significa sottovalutare pericolosamente il fenomeno del bullismo omofobico.

A due anni di distanza il dott. Ambrogio Cartosio, letto il comunicato, sporge denuncia per diffamazione e viene istruito un processo contro Vincenzo Rao, all’epoca dei fatti membro del consiglio direttivo dell’Associazione Articolo Tre di Palermo. In primo grado il Tribunale di Caltanissetta condanna Vincenzo Rao a quattro mesi di carcere e al pagamento delle spese legali e di un risarcimento danni. In Appello Vincenzo Rao rinuncia ad avvalersi della ormai sopraggiunta prescrizione del reato e lo stesso Tribunale conferma la condanna per diffamazione ma riducendo la pena detentiva a una ammenda.

Noi, promotori di questo appello, pensiamo che rispondere con una condanna penale e la richiesta di un risarcimento danni a una critica politica, per quanto aspra e provocatoria, non faccia bene alla nostra democrazia. Se così dovesse essere anche in via definitiva, si tratterebbe di un potenziale bavaglio che, insieme a Vincenzo, sentiremmo di avere tutte e tutti sulle nostre bocche e sulla nostra libertà di parola e di pensiero.

La libertà di parola è un diritto per tutti: per un pubblico ministero, che nell’esercizio delle proprie funzioni ha potuto utilizzare frasi forti e non lusinghiere nei confronti di un’insegnante e della sensibilità di un’intera comunità (quella omosessuale), perorando le motivazioni di un Atto di Appello; e per Chi ha voluto esprimere un disagio, comune a una larga fetta di cittadinanza, suscitato da quei passi del ricorso in Appello.

In assenza di una legge contro l’omofobia una vicenda del genere rischia di rafforzare l’idea che in Italia dare del “frocio” per offendere e deridere qualcuno sia uno scherzo lecito, mentre non è altrettanto lecito, anzi è da condannare, definire culturalmente arretrata la convinzione secondo cui le offese di stampo omofobico, machista e misogino siano uno scherzo tra ragazzi, al più non commendevole ma comunque tollerabile.

Con questa petizione chiediamo quindi al dott. Ambrogio Cartosio di ritirare la denuncia contro Vincenzo Rao, perché una condanna penale e un risarcimento danni per avere espresso una critica politica e un’opinione rischiano di rappresentare un pericoloso precedente che può produrre lo sgradevole effetto di intimorire la libertà di critica e di pensiero nei comuni cittadini. Libertà che, invece, è tanto più auspicabile riconoscere e tutelare quanto più autorevole è la persona a cui la critica viene rivolta. La libertà di critica non si condanna.

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