La scoperta della straordinaria varietà, nello spazio e nel tempo, delle convinzioni morali, la creazione di un quadro economico-sociale più libero e dinamico, la diffusione della teoria evoluzionistica e l'esperienza della capacità umana di dominare i processi naturali hanno prodotto dunque la consapevolezza ormai irreversibile che i confini tra natura e cultura sono molto meno netti di quanto non si credesse un tempo.
Infatti non ci si trova mai di fronte alla natura nella sua immediatezza ma sempre di fronte ad una natura già interpretata dall'uomo - e interpretazioni e relative valutazioni sono mutevoli: viene, cioè, di volta in volta dichiarato 'naturale' ciò che in una determinata cultura appare tale.
La linea di confine tra natura e cultura si rivela perciò come un prodotto della cultura stessa.
Se si riconoscono la storicità della natura dell'uomo, la plasticità delle sue inclinazioni fondamentali e la reinterpretazione culturale di esse, le conseguenze in campo morale sono inevitabili. Rinunciando alla pretesa di fornire precetti morali immutabili, si assegnerà alla ragione il compito di trovare di volta in volta soluzioni efficaci per i problemi posti dall'esperienza, tenendo conto dei valori di cui si ha consapevolezza in un determinato momento storico, e che proprio scelte inizialmente scandalose ed esperienze inedite possono far emergere.
L'istanza morale può esprimersi allora in maniera necessaria e immutabile non con precetti che stabiliscono in modo definitivo la liceità o meno di determinati comportamenti ma solo con formule che sottolineano il dovere di agire da uomini, individuando ciò che va fatto qui e ora.
Tesi, questa, oggi comune tra gli studiosi cristiani ma già presente sei decenni fa nell'opera di un grande moralista cattolico che, pur tra tanti condizionamenti, scriveva anticipando i tempi: "non è obbligatorio per la natura umana, e dunque per ogni uomo, che quell'atto non compiendo il quale egli decade necessariamente dalla sua dignità umana"(J. Leclercq, Les grandes lignes de la philosophie morale, Louvain-Paris 1946, p 407).
I moralisti che aprono simili prospettive, quindi, non ritengono affatto che tutto sia lecito: al contrario, sono certi che sia assolutamente necessario individuare criteri che consentano di discernere ciò che è eticamente legittimo da ciò che non lo è.
Ma tale criterio ha come fondamento non la natura delle cui leggi fisiche e biologiche bisogna certo tener conto ma appunto la dignità dell'uomo: il nocciolo duro dell'etica è il riconoscimento del valore di ciò che la tradizione cristiana indica col termine 'persona', un soggetto cioè capace di pensare e di agire liberamente, entrando in relazione con altre persone.
Morale è allora tutto ciò che ha effetti umanizzanti per sé e per gli altri, immorale ciò che attenta alla dignità propria come degli altri esseri umani.
Posizione, questa, che forse è non solo la più ragionevole ma anche la più coerente con lo spirito evangelico.
articolo di Elio Rindone inviato alla Comunità di Base
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